
Questo post è dedicato ad un amico, l'autore della vignetta di cui sopra.
Sperando che autore ed editore del libro di cui sotto non mi facciano richiesta di risarcimento per violazione della legge sul copyright, ricopio integralmente l'epilogo del loro romanzo. Per ingraziarmi la loro benevolenza, faccio pubblicità allo stesso:
- Titolo: Il bambino che sognava la fine del mondo
- Autore: Antonio Scurati
- Editore: Bompiani - RCS Libri S.p.A.
- Cod. ISBN 978-88-452-6241-8
L'amico blogger, autore della vignetta, è anche appassionato cultore degli argomenti riportati in tale epilogo. A quanti invece vorranno leggere il romanzo (secondo classificato al Premio Strega dello scorso anno) vi troveranno un nesso logico nell'abbinamento tra il contenuto della vicenda raccontata nel romanzo, e la vignetta stessa. La vignetta, quindi, non ha nulla a che vedere con autore e romanzo, ma solo con la vicenda raccontata nel romanzo stesso, vicenda che ha del "tragicamente" reale, e quantomeno parossistico, lanciando luci inquietanti, su quanti usano la parola in modo maldestro. Di più non posso dire, per non togliere la suspence a quanti vorranno andare "fino in fondo" nella lettura del romanzo.
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"Da bambino sognavo spesso la fine del mondo. Nei miei sogni il mondo finiva col fuoco. Ma non era così che sarebbe andata a finire.
Due giorni dopo la nostra scomparsa, nelle città della grande pianura i ratti navigherebbero su bidoni di latta, alla deriva nei condotti della metropolitana allagata. Soltanto due giorni e, in mancanza di un costante pompaggio da parte degli addetti alla manutenzione, l'immane massa d'acqua, che non cessa di scorrere sotto di noi in cerca di una via d'uscita, la troverebbe. Oh, sì, eccome se la troverebbe! Soltanto due giorni dopo la nostra scomparsa, l'elettricità cesserebbe. Gli interruttori di guasto automatico delle centrali nucleari o a carbone, menomati del dito dell'uomo, si piegherebbero da soli. La pompa smetterebbe di pompare, l'acqua comincerebbe a salire. Intanto le fognature s'intaserebbero di detriti: prima la plastica quasi eterna dei sacchetti abbandonati, poi la caduca materia organica delle siepi non potate, si riverserebbero, sorelle gemelle della desolazione, a intasare i canali di scolo. Sotto di loro, in quello stesso istante, le colonne d'acciaio che sorreggono la strada inizierebbero placidamente a corrodersi. Silenti, come erano state al tempo degli uomini.
Entro sette giorni dalla nostra scomparsa, privi di sistemi di controllo, i reattori nucleari s'incendierebbero o fonderebbero. Entro un anno, il manto stradale cederebbe. Quel manto, in seguito al gelo e al disgelo dell'acqua penetrata nelle crepe, si spaccherebbe come un labbro si spacca a sangue, morso dall'arsura. Entro due o tre anni, i primi edifici inizierebbero a crollare, fiaccati nelle fondamenta immerse nelle acque. Negli spazi liberi, il vento porterebbe i semi delle piante e quei semi attecchirebbero nelle fessure del manto stradale. In quelle crepe le piazze si coprirebbero di germogli infestanti, in quelle crepe le città tornerebbero alla natura, mentre le strade si reinventerebbero alvei per fiumi di superficie. Ogni primavera, non appena la temperatura oscillasse sulla linea del disgelo, la natura, penetrata dall'acqua, accoglierebbe nuove crepe. Ghiacciando.
I rapaci nidificherebbero tra le rovine, le volpi annuserebbero le strade. Solo le serpi, strisciando, le starebbero a guardare.
Cinque anni dopo la nostra scomparsa, in assenza di riscaldamento, i palazzi degli uffici, vittime del ciclo acqua-ghiaccio, unizierebbero a crollare. Dopo dieci, grandi aree della città sarebbero rase al suolo dagli incendi appiccati da un mucchio di rametti secchi colpiti da un fulmine. Soltanto le antiche cattedrali in pietra resisterebbero. Ancora un secolo nei secoli. Ma dopo cento anni tutti i tetti degli edifici crollerebbero, dopo trecento si sgretolerebbero i ponti sospesi, dopo cinquecento le foreste mature ricoprirebbero i crateri lasciati dalle città. Querce, aceri, e ovunque l'alianto cinese. Sopra di essi, enormi nuvole di zanzare sciamerebbero a nutrirsi di altri animali: cessata ogni attività di sterminio, rifiorite le zone umide, loro sarebbe la faccia della terra. Nei pungiglioni delle zanzare scorrerebbe, equanime, il sangue dei cervi giganti al pari di quello degli orsi polari. Il bestiame da allevamento, orfano dei nostri appetiti, si lascerebbe sbranare dai lupi di montagna; i ratti, orfani della nostra spazzatura, morirebbero di fame e di malinconia; gli scarafaggi, orfani dei nostri edifici riscaldati, scomparirebbero dalle zone temperate; i pidocchi, anche loro, si estinguerebbero, orfani dei nostri tepori.
Cinquemila anni dopo la nostra scomparsa, e l'isotopo radioattivo plutonio 239 si disperderebbe nell'ambiente, fuoriuscendo dagli involucri delle testate nucleari. Ancora quindicimila anni e gli ultimi edifici in pietra, le antiche cattedrali, cederebbero il posto all'alba di una nuova era glaciale. Trentacinquemila anni e la crosta della terra si libererebbe del piombo depositato al suolo dagli autoveicoli nel remoto XX secolo di un'era precedente. Centomila, e la concentrazione di anidride carbonica nell'atmosfera tornerebbe ai livelli preindustriali. Dieci milioni di anni, e a testimoniare la scomparsa sopravviverebbero soltanto le sculture in bronzo, molte delle quali manterrebbero quasi intatta la loro forma originale. Un discobolo, un satiro danzante, un soldato morente. Cinque miliardi di anni dopo la nostra scomparsa anche il bronzo svanirebbe. La terra si vaporizzerebbe, mentre il sole, anch'esso oramai morente come l'antico guerriero in bronzo, si espanderebbe e si mangerebbe gli altri pianeti interni.
D'accordo, l'angoscia ci canta la ninnananna, ma cosa accadrebbe alla faccia della terra un istante, un solo istante dopo la nostra scomparsa?
Accadrebbe questo inverno di nebbia che piovvigginando sale, ancora reduce dal fantasma dell'uomo, accadrebbe questa luce di cortile ancora accesa sulla traccia lasciata dagli pneumatici nella neve, questo casolare apparso in lontananza, questa strada poderale segnata dai cippi di pietra domestica, famigliare, oppure di pietra sepolcrale. Accadrebbe questo solco perfettamente tracciato a dividere, benigno, l'orizzonte da se stesso, fin dove la vista si perde, fin dove la campagna si perde. Fin dove si perde.
Accadrebbe la commozione di questo istante indifeso d'infinita tenerezza.
E non piangere, bambino, non piangere. Non hai nulla da temere dal futuro. La fine è già arrivata. Tanto tempo fa."
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